“A volte, per vendere meglio, bisogna solo rallentare.”
Così recita la slide finale di un contenuto LinkedIn dedicato al frictioning positivo — pubblicato da una nota pagina di approfondimenti di marketing.
La tecnica suggerita consiste nell’inserire consapevolmente ostacoli nel customer journeyper costruire fiducia. Un invito a frenare la corsa verso la conversione per apparire più credibili, più umani, più affidabili. In apparenza, un gesto di cura. In realtà, una sofisticata evoluzione del medesimo paradigma: vendere.
Il punto non è che si vende male. Il punto è che si vuole vendere, comunque.
Anche la più soft, benevola o apparentemente etica tra le tecniche rimane una tecnica. E ogni tecnica nasce da un intento unilaterale: guidare il cliente verso un comportamento desiderato dal venditore. Questo, per quanto avvolto in un linguaggio gentile o in una retorica del rispetto, resta un atto di persuasione. Una forma, più o meno implicita, di manipolazione.
Il frictioning positivo si presenta come un raffinato gioco di fiducia: si introducono rallentamenti, micro-decisioni, domande o barriere progettate per dare al cliente la sensazione di essere ascoltato e preso sul serio. Ma attenzione, è solo una sensazione progettata. Il fine resta la vendita. Una vendita più elegante, più consapevole, meno ansiosa, ma pur sempre una vendita.
Questo non significa che ogni tentativo di facilitare l’acquisto sia da demonizzare. Le imprese devono sostenersi, e i prodotti possono rispondere a bisogni reali. Tuttavia, ciò che va criticato è la logica che pone la vendita come fine intrinseco e dominante della relazione con l’altro. Il cliente diventa così un target, non un interlocutore.
C’è bisogno di un cambio di paradigma. Un cambio che vada oltre l’efficienza, la scalabilità e la conversione. Un cambio che vada dalla persuasione alla relazione, dalla finalizzazione al dialogo, dall’effetto alla cura.
Da “come posso vendere a questa persona?” a “come posso essere responsabile verso questa persona?“
L’etica della responsabilità infinita e l’ascolto dell’inconscio
Questo cambio di paradigma trova un fondamento teorico profondo nell’opera di Emmanuel Levinas. Per il filosofo lituano, l’etica precede l’ontologia: prima ancora di conoscere o agire, siamo chiamati a rispondere all’altro. L’incontro con l’altro non è mai neutro: è un evento che ci obbliga, ci spoglia, ci ferisce.
Per Levinas, la responsabilità verso l’altro precede qualsiasi volontà, qualsiasi libertà. Non possiamo più semplicemente fare ciò che vogliamo: siamo chiamati a rispondere, anche quando non lo desideriamo. Questo significa che prima di chiederci come posso vendere a questa persona?, dovremmo interrogarci su come posso essere responsabile verso questa persona?.
Il venditore, in questo scenario, non è più un architetto di funnel, ma un testimone, qualcuno che accompagna, che affianca, che accoglie. Il suo compito non è generare fiducia progettata, ma meritare fiducia autentica. E questo richiede presenza, ascolto e rinuncia al controllo.
In questa direzione si muove anche il pensiero di Jacques Lacan: il desiderio è sempre desiderio dell’altro. L’essere umano è abitato da una mancanza strutturale, che si esprime in un desiderio mai totalmente colmabile. Il compito dell’analista è aiutare l’analizzante a riconoscere il proprio desiderio, a farne esperienza, senza sostituirlo o manipolarlo. Lo stesso dovrebbe fare il venditore, non creare bisogni, ma accompagnare l’altro nel riconoscere i propri.
Anche Lao Tzu, nel Tao Te Ching, afferma che il saggio non agisce, eppure nulla rimane incompiuto. Questo principio del Wu Wei (non agire forzando) invita a lasciare emergere i fenomeni secondo la loro natura. In ambito commerciale, questo si traduce in una postura di presenza non invasiva, non spingere, ma essere disponibili; non orientare, ma accompagnare.
Fiducia non progettata, ma meritata
La fiducia non è il risultato di una sequenza ben progettata. Non si crea attraverso un touchpoint, una micro-delay o una CTA gentile. La fiducia non si genera, si merita. E la si merita nella gratuità, nella rinuncia al controllo, nella pazienza del tempo condiviso.
Come scrive Levinas, accogliere l’altro significa accettare che ogni essere umano è allo stesso tempo infinitamente unico e irripetibilmente finito. Questo implica che la relazione non è mai scalabile, mai garantita, mai convertibile in processi. È fragile, esposta, contingente. E per questo preziosa.
In questo senso, l’unico frictioning davvero positivo è il coraggio di non forzare. È restare in silenzio quando potresti chiudere la trattativa. È lasciare spazio anche al no. È scegliere di non indurre un bisogno, ma di attendere che emerga.
Marcel Mauss e la logica del legame
Marcel Maus ha mostrato come nelle società arcaiche il dono non fosse una forma di generosità disinteressata, ma un atto carico di significato sociale. Donare, ricevere, ricambiare: una triplice obbligazione che costruiva legami, obbligava relazioni, generava coesione.
In questo contesto, il valore non è contenuto nell’oggetto, ma nel gesto, nel legame che esso crea. Applicato al marketing, ciò significa riconoscere che la relazione commerciale non deve essere pensata come uno scambio di equivalenti, ma come un potenziale spazio di reciprocità, dove ciò che conta non è vendere ma generare legame.
Ecco perché il marketing relazionale autentico non è semplicemente gentile. È generativo. Crea reti, significati condivisi, riconoscimenti reciproci. E solo dentro questa cornice, eventualmente, può accadere anche uno scambio economico.
La cura come fondamento economico
Negli ultimi anni, la care economy — o economia della cura — ha messo in discussione la centralità della produzione e del profitto come criteri unici di valore. Autrici come Joan Tronto hanno evidenziato come la cura non sia una pratica accessoria, ma la base stessa della vita sociale ed economica. Curare significa prestare attenzione, assumersi responsabilità, rispondere ai bisogni altrui.
Traslare questa prospettiva nel business significa chiedersi non quale valore possiamo estrarre dal cliente?, ma come possiamo prenderci cura delle relazioni, dei contesti, dei significati che si generano?.
Questo implica una ridefinizione dei KPI, ma soprattutto della finalità stessa dell’impresa. Non massimizzare profitti, ma massimizzare impatti relazionali positivi, duraturi, trasformativi.
Wu Wei e Service-Dominant Logic, la co-creazione del valore
Tornando al pensiero orientale, il principio del Wu Wei ci insegna a non forzare gli eventi, ma a rispondere alla situazione. Quando smettiamo di vendere per iniziare a praticare il Wu Wei, spesso vendiamo di più. Ma non è questo il punto. Il punto è che il risultato non è più lo scopo, ma una conseguenza naturale.
Questa idea si intreccia con la Service-Dominant Logic proposta da Vargo e Lusch: il valore non è qualcosa che si consegna, ma qualcosa che si co-crea. Il cliente non è un recettore, ma un co-autore. L’impresa non offre valore, ma partecipa alla sua generazione attraverso l’interazione.
Il prospect non è un lead da convertire, ma una persona abitata da bisogni, desideri, paure, memorie. A volte inconsce. La relazione commerciale non è una sequenza di touchpoint, ma un incontro carico di senso, di rischio, di responsabilità.
Visione operativa: verso un’impresa post-marketing
Come tradurre tutto questo in pratica? Non con una nuova tecnica, ma con una nuova postura.
- Ascolto radicale: smettere di anticipare bisogni, cominciare ad ascoltare senza agenda.
- Non progettare la fiducia: agire in modo degno di fiducia, anche quando non produce conversioni.
- Accompagnare senza finalità: essere presenti anche se l’altro non compra, anche se dice no.
- Rifiutare la scalabilità: accettare che ogni relazione è unica, non replicabile.
Come scrive Bernard Cova, il marketing non deve più vendere prodotti, ma facilitare legami. I consumatori postmoderni non cercano solo beni, ma appartenenza, ascolto, riconoscimento. Non solo storytelling, ma anche storylistening.
Il post-marketing è già cominciato
Forse il marketing come lo conosciamo sta morendo. E con esso anche l’idea che si possa vendere meglio. Ciò che resta è una nuova postura: non quella del tecnico della conversione, ma quella del compagno di viaggio. Non quella dell’innovatore di funnel, ma dell’umano presente.
Come dice Lao Tzu, l’obiettivo è essere in armonia con la natura. Nel business, questo significa permettere che le transazioni emergano naturalmente dall’incontro autentico tra bisogni reali e risposte adeguate.
Il soggetto è sempre attraversato da una tensione tra ciò che è e ciò che desidera, ci ricorda Lacan. Il nostro compito non è risolvere questa tensione, ma accompagnarla. Non vendere meglio, ma esserci meglio. Anche se non porta a una vendita. Anche se l’altro sceglie altro.
È una scommessa economica, antropologica, politica.
E allora sì, a volte bisogna rallentare. Ma non per vendere meglio. Per smettere di vendere. E cominciare a incontrare.
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Bibliografia essenziale:
Vargo, S.L. & Lusch, R.F. (2004). “Evolving to a New Dominant Logic for Marketing.” Journal of Marketing, 68(1), 1–17.
Bauman, Z. (2000). Liquid Modernity. Cambridge: Polity Press.
Cova, B. & Cova, V. (2002). “Tribal Marketing: The Tribalisation of Society and its Impact on the Conduct of Marketing.” European Journal of Marketing, 36(5/6), 595–609.
Lao Tzu. Tao Te Ching. Trad. it. A. Balducci, Milano: Adelphi, 2009.
Lacan, J. (1964). Il seminario. Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Torino: Einaudi.
Levinas, E. (1961). Totalité et infini. La Haye: Martinus Nijhoff (trad. it. Totalità e infinito, Jaca Book, 1991).
Levinas, E. (1974). Autrement qu’être ou au-delà de l’essence. La Haye: Martinus Nijhoff (trad. it. Altrimenti che essere, Jaca Book, 1983).
Mauss, M. (1925). Essai sur le don. Paris: Presses Universitaires de France (trad. it. Saggio sul dono, Einaudi, 2002).
Salmon, C. (2007). Storytelling: La machine à fabriquer des histoires et à formater les esprits. Paris: La Découverte.
Tronto, J. (1993). Moral Boundaries: A Political Argument for an Ethic of Care. New York: Routledge.

Less fixed way of thinking, willing, or feeling acquired through previous repetition of a mental experience.
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