Quando la qualità non basta. Riflessioni sulla chiusura di Eataly Verona

Il 3 agosto 2025 Eataly chiuderà il suo punto vendita a Verona, quello ospitato nell’ex ghiacciaia dei Magazzini Generali, simbolo di un’idea ambiziosa e insieme contraddittoria: portare la qualità enogastronomica italiana al grande pubblico, dentro una cornice spettacolare, immersiva, colta. Ma il sogno si è infranto. Dopo 4,5 milioni di euro di perdite in due anni, un affitto insostenibile da 96.000 euro al mese e un progetto di rilancio mai decollato, cala il sipario su una narrazione che aveva fatto scuola. E il caso Verona diventa qualcosa di più: un sintomo del declino di un certo modello economico e culturale.

Per anni ci siamo raccontati che la qualità — nel cibo, nel vino, nell’esperienza d’acquisto — fosse una questione di cultura, di consapevolezza, di gusto per le cose buone e fatte bene. Ma nei fatti, la qualità è stata progressivamente agganciata al prezzo. Eataly non ha inventato questo meccanismo, ma l’ha istituzionalizzato: il food come esperienza estetica, il supermercato come spazio museale, il prodotto come racconto. Tutto curato, tutto bello, tutto giusto. Ma non per tutti.

Perché la qualità, lì, aveva un prezzo. Alto. Talvolta altissimo. Giustificato, si diceva, dal valore intrinseco del prodotto: selezione, filiera corta, lavoro artigianale. Ma anche da un impianto narrativo che ha trasformato il cibo in status symbol: se puoi permettertelo, sei parte dell’élite colta, etica e raffinata. Se no, accontentati del discount.

Tuttavia, ciò che era trendy nel 2010 e nel 2020, oggi inizia a sembrare quantomeno stonato, in un’Italia segnata da nuove povertà, precarietà cronica e disillusione diffusa.
E non è più vero nemmeno che la qualità, seppur costosa, resti un affare per i ricchi. Perché se Eataly chiude, è segno che anche chi può permetterselo ha smesso di crederci.
La narrazione della qualità come privilegio non è solo inaccessibile: è diventata inattuale, culturalmente esaurita. Non funziona più. Non seduce, non convince, non coinvolge.

L’idea che il valore coincida col prezzo alto non regge più nemmeno per chi ha il portafoglio giusto. Perché oggi la qualità richiede altro: prossimità, fiducia, sobrietà, senso. E se questi elementi non ci sono, il prodotto perde significato, anche se pregiato.

Il punto vendita di Verona, ce lo raccontano i dipendenti stessi, non era un deserto commerciale. Aveva clienti affezionati, eventi seguiti, addirittura una clientela fidelizzata proveniente da fuori provincia. Ma il modello non reggeva: spese fisse troppo alte, posizione infelice, e un immobile-mastodonte da 13.000 mq pensato più come vetrina che come presidio di prossimità. Eataly ha chiesto alla proprietà di ridurre l’affitto. La risposta è stata un rifiuto. Il resto è cronaca.

Eppure il segnale che emerge da questa vicenda è più profondo di un semplice errore di pianificazione o di una trattativa saltata. Ci dice che è in crisi strutturale un intero immaginario: quello del cibo come spettacolo (per chi se lo può permettere).
Un capitalismo gastronomico gentile, che ha provato a coniugare etica, estetica e margine di profitto, ma che oggi mostra il suo volto elitario, quando il contesto cambia.

E nemmeno si può trascurare il ruolo — e le responsabilità — del management. Scommettere su un immobile da 13.000 metri quadrati in una zona decentrata, con costi di esercizio elevatissimi, richiedeva non solo coraggio ma anche una visione lucida e sostenibile.
Invece, è come se si fosse creduto che il solo fatto di essere Eataly bastasse a rendere l’operazione vincente. Una fiducia cieca nel potere del brand, tipica del capitalismo simbolico contemporaneo, ha portato a sottovalutare i vincoli reali: territoriali, economici, culturali.
La gestione ha mostrato tutti i suoi limiti: troppa fiducia nella narrazione, poca attenzione alla sostenibilità reale. Le trattative per ridurre l’affitto sono arrivate tardi. Le collaborazioni locali (come il Museo del Vino) non sono state portate a termine. E la chiusura è arrivata quando i margini di manovra si erano già esauriti.

In questo senso, la fine di Eataly Verona è anche la fine di una presunzione: quella di poter trasformare ogni spazio in profitto, semplicemente grazie al brand. Ma i contesti non si piegano alle narrazioni. E nemmeno i clienti.

La narrazione di Eataly si è sempre basata su parole come cultura, formazione, valore del cibo, ma sotto la superficie si muovono meccanismi noti e prevedibili. I lavoratori del punto vendita veronese raccontano che ogni settimana veniva assegnato un budget da raggiungere. Obiettivi di vendita precisi, misurati, tipici di qualsiasi catena della grande distribuzione. A volte superati. Tanto da meritare premi, come la mensilità aggiuntiva ricevuta poco prima della chiusura definitiva.

È un dettaglio che vale moltissimo. Perché ci dice che, al di là delle parole sulla qualità e sulla missione educativa, Eataly funzionava come qualunque azienda orientata al profitto: KPI, budget, pressione sugli obiettivi, gestione da manuale. Il fatto che vendesse prodotti etici non significa che le sue logiche lo fossero davvero. C’è qui un cortocircuito evidente: si fa storytelling valoriale, ma si pratica managerialismo classico. Si celebra il piccolo produttore, ma si costringe il lavoratore a performance settimanali da centro commerciale. È una forma sofisticata di capitalismo verde, o meglio ancora un capitalismo gourmet, che usa la retorica della sostenibilità per mascherare le stesse logiche di efficienza e marginalità che governano ogni altra impresa.

Se vogliamo davvero parlare di qualità, dobbiamo liberarci dal ricatto narrativo del prezzo. La qualità — quella vera, che riguarda la salute, l’ambiente, la dignità di chi produce — non può essere un privilegio riservato a chi ha il portafoglio giusto, né una merce di lusso impacchettata in storytelling patinati. È tempo di pensare la qualità come bene comune, non come bene di lusso. Di costruire filiere giuste, accessibili, locali, ma anche tecnologicamente trasparenti. Di moltiplicare i piccoli presìdi quotidiani, fisici e digitali, anziché i grandi templi del consumo.
Di tornare a una prossimità concreta — sociale, territoriale, relazionale — potenziata da strumenti digitali: piattaforme e-commerce a impatto ridotto, logistica di quartiere, sistemi di tracciabilità avanzata basati su tecnologie come la blockchain, capaci di restituire fiducia e visibilità lungo tutta la filiera.

Non si tratta di tornare indietro, ma di andare avanti in modo diverso. Verso un modello dove il cibo non è più spettacolo, ma diritto relazionale. Dove la qualità non è apparenza, ma legame. Dove il digitale non sostituisce la comunità, ma la rafforza. La fine di Eataly Verona, allora, non è solo la chiusura di un negozio. È probabilmente il tramonto di una visione. Forse necessaria, forse utile in passato. Ma oggi inadeguata. E se vogliamo che la qualità abbia ancora un futuro, dovremo avere il coraggio di sganciarla dai coefficienti di lusso e riportarla dove è nata, sulle tavole comuni, tra le mani delle persone, nel cuore delle comunità.